RECENSIONE. TRAINSPOTTING: scegliere di non scegliere.

Distribuito nelle sale nel 1996, Trainspotting è il riflesso di una generazione liminale, quella a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta, emarginata dalla società durante l’ingombrante metamorfosi di quest’ultima verso la modernità. In tale cornice, si intrecciano, tra Edimburgo e Londra, le precipitose vicende di Renton, i suoi compagni e le loro dipendenze.

La regia di un giovane Danny Boyle e la sceneggiatura di John Hodge, traspongono gli eventi dei personaggi dell’omonimo romanzo di Irvine Welsh, in parte biografico, in maniera sfacciata e pungente. Sulla scia della loro prima collaborazione, (Shallow Grave) la narrazione viene perfezionata utilizzando un marcato black humor che diluisce i malesseri del periodo di transizione culturale. Disoccupazione, disagio sociale, tossicodipendenza, AIDS, alcolismo, sono solo alcuni dei veleni che scorrono nelle vene dei personaggi e trascinano lo spettatore negli aspetti più ripugnanti delle vite di questi ultimi.

Dalla prima scena, la cinepresa insegue con un carrello a precedere l’inevitabile decadenza di questi individui verso i loro vizi e il montaggio si serve di una serie sequenze frammentarie, per la maggior parte narrate dal punto di vista del protagonista antieroe, Renton. Nella prima parte del film, la discontinuità fra le varie scene è strettamente legata ai momenti di lucidità di quest’ultimo, il quale, sceglie di non scegliere la grettezza di una vita borghese, fuggendo dal consumismo e rifugiandosi in un non-luogo, quello dell’eroina. Oltre a questa scappatoia, i cinque amici cercano nostalgico conforto negli strascichi di precedenti idoli musicali (Iggy Pop) e cinematografici (Sean Connery), che contribuiscono ad arricchire la trama di numerose citazioni della cultura pop: dall’immagine di Travis Bickle armato, ai muri ispirati al Korova Milk Bar della discoteca.

L’intuito del regista e del direttore della fotografia Brian Tufano, viene fuori sia nel provocante cinismo delle inquadrature che si soffermano sul dettaglio, come quello dell’ago nel braccio, sia nell’intima soggettività delle eccezionali scene in cui la cinepresa cade a terra seguendo i personaggi. L’uso del grandangolo nei primi piani, i movimenti complessi e le prospettive audaci della macchina da presa, contribuiscono ad armonizzare l’immagine con il soggetto conferendogli un singolare aspetto deformante e allucinogeno. Quest’ultimo aspetto è amplificato dalla scelta dei colori primari intensi e delle ambientazioni, opera dello scenografo Kave Quinn che riprende la crudezza e l’inquietudine delle opere di Francis Bacon.

In continuità con la sua opera precedente, Boyle sceglie di affidare ad Ewan McGregor il ruolo del protagonista di un film che si potrebbe definire paradossalmente di formazione, in grado di impersonare in maniera incisiva colui che, tra i cinque, alla fine si dimostra, ancora una volta, il più astuto. Altrettanto notevoli, Jonny Lee Miller, Robert Carlyle, Ewen Bremner e Kevin McKidd, rispettivamente nei panni di Sick Boy, Francis Begbie, Spud, e Tommy e l’ironico cameo dello scrittore Irvine Welsh.

A differenza di Shallow Grave, stavolta Boyle riesce ad accostare una colonna sonora che pare intimamente connessa alle immagini, grazie al contributo del discografico Tristam Penna della EMI, il quale, di fronte al rifiuto di una collaborazione da parte di Bowie suggerisce al regista la celebre Lust for Life di Iggy Pop (prodotta dallo stesso Bowie) che incarna appieno lo spirito del film. Il post-punk dei New Order, il brit-pop dei Blur, il rock di Lou Reed, ma soprattutto l’acid house degli Underworld concretizzano appieno il contesto del romanzo di Welsh, quello dell’affermarsi del rave-scenario nei primi anni Novanta, caratterizzato da musica elettronica e uso senza regole di droghe, specchio del mutamento della cultura scozzese giovanile dell’epoca.


 

 

News pubblicata martedì 21 novembre 2023