[PARLIAMONE] Don't Look Up (2021)

DON'T LOOK UP (2021) di Adam McKay.


Il successo dell'ultimo film di Adam McKay è stato palpabile da quando il film è arrivato sulla piattaforma Netflix, infatti aveva già fatto comparsa nei cinema americani non destando particolare successo: questo è sicuramente un elemento interessante per comprendere in che direzione sta andando l'intrattenimento pubblico dopo la pandemia. 


Per comprendere la grande accoglienza che il film ha avuto, bisogna innanzitutto riflettere sul contesto all'interno di cui il film è nato. Siamo negli Stati Uniti d'America e sta per essere eletto un nuovo presidente, e questo sembra essere l'unico elemento che interessa alle persone di potere: ossia sfuggire agli scandali pubblici e provare a trarre dalla catastrofe, ormai imminente, un profitto per aumentare la propria ricchezza. Il ruolo delle altre nazioni sembra totalmente assoggettato a quello dell'America, qui immaginato come unica nazione che si attiverebbe per salvaguardare il destino dell'uomo. 


Il film sembra una metafora del cambiamento climatico, tematica che poi è stata fortemente influenzata da quello che sarebbe stata una delle problematiche più influenti del 2020, ovvero il Covid (le riprese sono iniziate infatti nell'aprile 2020 e terminate nel febbraio 2021). 

Non solamente gli eventi reali hanno influenzato il film, quasi tutti i personaggi si rifanno in qualche modo a personaggi pubblici più o meno definiti dell'olimpo americano. 


Il presidente Orlean, interpretato da Meryl Streep, incarna i tratti realmente caratteristici di Donald Trump, quali populismo e affermazioni anti-scientiste: è impossibile non creare un'associazione immediata tra i due, nonostante il personaggio interpretato sia una donna: gli episodi di clientelismo e nepotismo sono dei richiami immediati. Infatti anche il figlio Jason Orlean (Jonah Hill) ricorda i figli Donald Trump Jr. e Ivanka Trump e il marito di lei Jared Kushner (in particolare quest'ultimo ha pesantissime responsabilità rispetto alla gestione americana del covid). 


Peter Isherwell (Mark Rylance), piena rappresentazione del super ricco, riunisce in sé le caratteristiche dei più grandi capitalisti americani: il look e il modo di stare sul palcoscenico ricordano in pieno Steve Jobs; le ambizioni e la capacità di progettare soluzioni di vita nello spazio ricordano i progetti di Elon Musk e Jeff Bezos; le sue profilazioni degli individui ricordano a pieno il modo di operare di Mark Zuckerberg. La sua capacità di influenzare le scelte politiche della nazione sono piena espressione di una nazione che basa tutto il suo essere sulla competizione capitalistica e sull'economia. 


I conduttori televisivi sono anch'essi agglomerati e rimandano al mondo dell'informazione americana soprattutto per quanto concerne i canali repubblicani. 

E infine Riley Bina (Ariana Grande) sembra essere un personaggio studiato per rappresentare tutti quei personaggi dello spettacolo commercializzato che fanno della propria vita privata merce di scambio. 


Adam McKay, sebbene richiami a delle figure note nel panorama culturale americano non vuole quindi solo rivolgere delle critiche individuali, ma crea un ambito di dibattito e di critica sull'intero sistema politico e sociale, e il fatto che i personaggi riuniscono in sé più figure aderenti a determinate "caste" delinea il profilo di una società ancorata ancora fortemente alla divisione in classi. 


Il film ci catapulta in un'atmosfera quasi surreale. Le situazioni che vengono presentate allo spettatore, che tutti, tranne i due protagonisti, sembrano trovare assurde e incomprensibili, sono all'inizio grottesche e inverosimili, ma diventano via via sempre più riconoscibili. 

C'è un momento, nel film, in cui si avverte una sensazione netta e fastidiosa, un prurito mentale, un deja vu che non vogliamo cogliere. Eppure siamo costretti a farlo. Perché all'improvviso, tra una risata e un “non sarebbe mai possibile una cosa del genere”, ci accorgiamo che quello che viene descritto in realtà è uno scenario futuro molto probabile. Ci accorgiamo che quello che viene descritto è uno scenario che, in molti campi, si sta già realizzando.

Le persone non credono più alla scienza, sottovalutano i rischi degli allarmi lanciati dagli studiosi e al massimo ci creano un meme a proposito. 

Ci si rende conto, guardando “Don't look up”, di quanto possiamo arrivare vicini alla fine del mondo, sfiorarla, persino affrontarla, e neanche rendercene conto finché l'evidenza non è sotto i nostri occhi. A volte nemmeno allora. 

I dialoghi possono apparire a tratti poco realistici, eppure sono una perfetta rappresentazione di quanto l'opinione dei singoli e quella pubblica - entrambe, a modo loro, filtrate dai media - possano essere totalmente cieche di fronte all'evidenza scientifica, anche a costo di conseguenze disastrose. 

 

In conclusione, il film funziona, fa ridere e anche riflettere sulla deriva grottesca che ha preso l'attuale società, non solo quella statunitense.

 

Gli attori sono tutti sopra le righe.

Il montaggio è schizofrenico, apparentemente sbagliato. Non è montaggio invisibile, è un montaggio esplicito, è come se l'autore si volesse mettere in mostra e dire: io ci sono e voglio dirvi qualcosa (ed effettivamente questo si sposa bene anche col fatto che la satira sia molto esplicita).

Interessante il modo in cui ibrida a livello visivo i linguaggi di più media: cinema, tv e social.

 

Film simili cui è possibile paragonarlo sono Idiocracy, La seconda guerra civile americana, la serie-tv Black Mirror.


News pubblicata martedì 22 febbraio 2022